UMILTÀ: “Non in ginocchio, Monsignore: io sono l’ultimo Sacerdote del Signore!” così Pio X si esprimeva con i Vescovi che riceveva e che accennavano ad inginocchiarsi alla Sua presenza.
La virtù morale dell’umiltà fu compagna indivisibile del seminarista Giuseppe Sarto, del Sommo Pontefice Pio X, tanto inscindibile che il Card. Merry del Val, depone nei processi apostolici “mi pare che in Lui fosse divenuta una seconda natura”. Umile di fronte al «primo con eminenza» di tutte le classifiche di ogni anno di studio e che egli attribuiva a bontà del Signore ed a supervalutazione da parte dei Superiori scolastici; umile di fronte al proprio Parroco di Tombolo, che paternamente lo invitava a concorrere per qualche parrocchia, “e se non concorri tu, concorro io per te!”; umile a Treviso in Curia, come Cancelliere Vescovile “posto anche questo troppo alto per le mie povere forze”, in Seminario, dove si presenta “povero piovanello che non si occupa che di meschine spiegazioni vangeliche e di catechismi alla buona e che non ha altro studio che di farsi intendere dai poveri contadini e dalle menti piccine dei pargoli”; umilissimo Vescovo e Patriarca, pur nello splendore della amplissima Porpora Romana, prega, invoca l’allontanamento di tali dignità, col pensiero costante del detto di S. Filippo: e poi? e poi? e poi la morte.
Dove però come una fulgida gemma brilla l’umiltà di Pio X è nei giorni, angosciosi per lui, del Conclave, ma sarà appunto essa che ispirerà ai Cardinali la Sua elevazione al Pontificato: tollerò, talvolta con visibile sofferenza, gli onori, lo sfarzo attorno alla propria persona, ridusse la fastosità di riti e della vita di corte, proscrisse al proprio indirizzo gli evviva, i battimani entro il sacro tempio, e tutto chiedeva «per favore» o «mi faccia la carità di…».
Anche come Papa chiedeva e solleticava il parere, il consiglio di persone degne di darlo per santità di vita e profondità di dottrina, fra le quali emerge il Card. Merry del Val; suo ultimo atto di umiltà fu la scelta delle grotte vaticane per l’estremo riposo della Sua Salma.
POVERTÀ: Pio X volle seguire da vicino Gesù Cristo, amare Dio, e per questo, come essenza della propria vita volle la povertà. Sembrerebbe quasi impossibile vivere in povertà, in un ambiente, in una condizione, in uno stato in cui tutto parla di signorilità, di ricchezza, di arte, di fastosità di una Corte unica al mondo, di riti, cerimonie e costumi echeggianti i secoli d’oro; eppure nessuno fu più povero di Pio X nel palazzo Vaticano, poiché, sono parole sue, “vero povero è colui che anche nella dovizia di tutte le cose, naturalmente con l’affetto e con l’animo volenteroso rinuncia a quanto di bene può offrirgli la terra” (discorso del cappellano don Giuseppe Sarto in morte di Elisabetta Viani). Fin da bambino si accontentò del poco che poteva avere dai genitori pur essi poveri; non desiderò mai quello che non poteva avere e che non fosse per lui indispensabile, anche questo ridotto! La povertà in casa Sarto entra maggiormente con la morte del capofamiglia, si accentua con la necessaria vendita dei pochi campicelli, si palesa a Padova, a Tombolo, a Salzano dove gli indumenti personali scarseggiano e mezzo uovo deve bastare per cena; povero a Treviso e Mantova, lo scrive Mons. Sarto stesso, ma a Venezia addirittura pitocco!
La povertà di Pio X è ormai patrimonio di una episodica più o meno reale, ma comunque ispirata a questa virtù che fece di Lui un vero campione, che in tutta la vita accettò, mai chiese, tanto meno cercò e meno ancora sollecitò. Di Lui, più di ogni altra considerazione o ricerca aneddotica, sta basilare l’affermazione testamentaria, ciò che equivale affermazione fatta in presenza di Dio, perché atto riassuntivo di una vita che solo Dio conosce e giudica: “Sono nato povero, sono vissuto povero e sono sicuro di morire poverissimo”.
Nota il Corriere della Sera del 22 agosto 1914 che, per trovare qualcosa di simile a questa affermazione testamentaria, occorre “risalire ai primissimi tempi del Cristianesimo, quando il Diacono Lorenzo, invitato ad esporre i tesori della Chiesa, additava i mendicanti, che facevano ressa sulla soglia del Tempio”.
MODESTIA E CASTITÀ: rifulsero nel Nostro dall’alba al tramonto della sua vita, come sole in pieno meriggio, senza ombra di nube: gli inevitabili impulsi degli umani istinti cozzarono sempre contro un’anima tutta di Dio, contro una volontà ben determinata a non offenderlo, contro una vigilanza su sé stesso e su quanto lo circonda e così egli studente, sacerdote, Vescovo e Pontefice trionfò gioiosamente. Eppure periodi e circostanze non mancarono. Fino dai teneri anni, quanto ancora bambino e solo, giornalmente si recava a piedi a Castelfranco Veneto! A Tombolo e Salzano mai ebbe persone estranee in casa, ma soltanto una sorella per le faccende domestiche; a Treviso visse in Seminario; a Mantova e Venezia volle con sé le sorelle nubili, che si alternavano con l’assistenza alla vecchia mamma Margherita, rimasta a Riese; a Roma chiamò ancora le tre sorelle, con l’assistenza della nipote Gilda Parolin e non volendo, queste creature a Lui tanto care, troppo distanti da sé, le fece alloggiare nei pressi del palazzo Vaticano. La natura per quanto espansiva, gioviale di Pio X non consentiva ad alcuno, per quanto onorato da amicizia devota, di oltrepassare i limiti della convenienza, o di scendere a particolarità men che doverose, cercando nel di Lui sguardo un assentimento; vi avrebbe trovato un muto severo richiamo che troncava ogni proseguo del discorso. Guardingo verso sé stesso, mai in ozio, poco amante del letto (“me basta un soneto, par star in piè durante el dì”), trattava con le persone di altro sesso con delicato riserbo e sorvolava quanto era possibile nei particolari di argomenti di natura delicata, trattati per ragioni di ministero sacerdotale.
La corona reale che va posta in capo alle virtù della modestia e castità di Pio X è quella sua disposizione testamentaria di non voler essere imbalsamato – secondo la tradizione – affinché nessuna mano tocchi il suo corpo, tempio dello Spirito Santo.
Oltre le virtù, così poveramente esposte, l’anima di Pio X fu arricchita dal Signore da doni soprannaturali, che si manifestavano con tale semplicità e naturalezza che Egli, con profonda umiltà cercava di nascondere e non riuscendovi, cercava di svalorizzare.
“Santo Padre, siete un Santo!” “No, figliolo, sono un Sarto!”
Ancora: “Adesso vanno dicendo che mi son messo a far miracoli, quasi non avessi altro da fare!”. Eppure Ludovico Von Pastor, lo storico del Pontificato Romano, quando avvicinava Pio X, aveva la convinzione profonda di trovarsi alla presenza di un Santo; l’ultraottantenne Cardinale Herreroy Hespinoza di Valnza, morente sui giorni del Conclave del 1903, alla benedizione dell’appena eletto Papa Pio X, si sentì migliorato così da ritornare in Spagna entro tre soli giorni; tutto questo e ben altri fatti straordinari si manifestavano attraverso la più limpida semplicità dell’essere di Pio X.
Questa dote del Signore, rifulse così chiara da ottenere l’esaltazione di Papa Pio XII, nel discorso per la Beatificazione del Suo Predecessore: “Il Figlio di Riese rimaneva sempre eguale a se stesso, sempre semplice, accessibile a tutti … e continuò a d esser tale nella maestà sovrana, sulla sedia Gestatoria e sotto il peso della Tiara il giorno in cui la Provvidenza inclinò a rimettere il vincastro, caduto nelle Mani affievolite del grande Vegliardo Leone XIII, a quelle paternamente ferme di Lui, di Pio X”.
La Sua semplicità dette più luce al trono in cui Egli venne insediato: “sorelle del Papa” saranno chiamate le sorelle sue, credo così nel dizionario araldico un titolo nuovo di nobiltà, che riverberò raggi di commossa ammirazione, di plauso sincero del mondo per il grande Artefice di questo tratto di genuina semplicità.
Egli non poteva agire diversamente appunto per questa dote preziosa che “è espressione spontanea e sincera del proprio essere”: che significa “assenza di complessità, cioè negazione di doppiezza, di ipocrisia, di inganno …”, del semplice ha fatto il ritratto di Gesù stesso: “il vostro linguaggio sia sì, se è sì, e no se è no”. (Mt. V – 37). “Il semplice è la verità assoluta” (P: Fernando Tonello).
Alla semplicità Egli accoppiava l’affabilità, tanto più meritoria in quanto seppe inserirla in ogni atto e momento della propria vita; anche se l’anima era triste “fino alla morte”, il cuore gonfio di amarezza, la volontà rattristata, in Lui sorrideva sempre la affabilità del tratto, del dire, dell’accoglienza, della discussione, mai lasciando trasparire la propria intima sofferenza per non gravare gli altri delle proprie pene.
Solo sul Crocifisso le riversava!
Al disoccupato di Tombolo che chiedeva un aiuto, apriva la porta del granaio ed indicandogli uno striminzito mucchietto di granone esclamava: facciamo parti uguali! Al parrocchiano di Salzano che Gli restituiva cavalla e biroccio del parroco, in pessimo stato, lo scusava dicendogli: la cavalla viene dalla canonica e per questo è devota ed ha le ginocchia rotte! Per l’affabilità aveva questo principio “non voglio che nessuno, con me, stia a disagio, specialmente gli inferiori, perché sta a vedere chi sono gli inferiori! Secondo il giudizio di Dio, il mondo sarà tutto a rovescio di quello che vediamo noi!”.
Ecco perché il bambino povero, il sacerdote sconosciuto, il Vescovo osteggiato, il Pontefice combattuto, nel giudizio di Dio, a confronto della cristianità, divenne faro di salute, luce di gloria.
Fonte: b.p. in Ignis Ardens marzo-aprile 1965