Cardinale Jacopo Monico
da "Humus Religioso, Sensibilità vocazionale
a Riese nei secoli XVIII e XIX,
quando nasce Giuseppe Melchiore Sarto"
di don Gianni Zamprogna
Nel Battesimo gli fu assegnato il nome del capostipite dei Monico di Riese, Giacomo detto "Cargno", e come il nonno paterno. La sua mamma Antonia Cavallin di Villanova era sorella della mamma di don Giuseppe, Mariangela: per via della madre era cugino primo di don Giuseppe, per via di padre era figlio di cugino.
Giambattista, il padre, era fervente cristiano e devoto della Madonna, se il suo nome figura nella lapide sopra la porta d'ingresso delle Cendrole: quel Santuario fu restaurato dopo lungo abbandono, quando era arciprete Angelo Artuso di San Zenone, "autore" G. Battista Monico, quindi su sua proposta e grande spinta. In quegli anni tra i fabbriceri della parrocchia c'era sempre qualche Monico.
Dopo le due classi elementari, anch'egli fu preparato nelle nozioni grammaticali da qualche sacerdote, forse il medesimo don Domenico Canil di Altivole, perché anche lui voleva diventare sacerdote come il cugino, di nove anni più anziano. Giacomo infatti era nato a Riese il 26 giugno 1778. E si trovò col cugino nello stesso Seminario di Treviso: uno nel ginnasio e l'altro in teologia. E quando Giacomo frequentava la teologia, un altro fratello, Giovanni Maria, iniziava il ginnasio nello stesso istituto.
Dimostrò sempre un carattere mite, ma volitivo e pronto negli studi. Si fece stimare tanto dai Superiori sia per il carattere mite e disponibile, come per l'impegno e il profitto nelle varie discipline scolastiche.
Divenne sacerdote nel 1800 e, come il cugino, "fu tenuto in Seminario come insegnante di umane lettere, ufficio, che on molto onore tenne il Monico per ben diciotto anni".
Si dilettava a comporre testi poetici, e da allora ha cominciato a firmarsi Jacopo, nome d'arte, che poi conserverà per il resto della vita. Era poeta sereno, dolce contemplativo, a volte accademico, a volte ispirato.
Non avrebbe mai voluto mandare alle stampe i suoi scritti, in prosa o in poesia, tanto era umile, ma i suoi amici lo hanno fatto dopo la sua morte. Il Card. Angelo Roncalli, suo successore come Patriarca di Venezia, a Riese nel 1954, per le feste della iscrizione nell'albo dei Santi di Pio X, in chiesa ha tenuto l'elogio di Pio X, partendo dall'episodio biblico che racconta la scelta di David, figlio di Jesse, come Re di Israele, tramite il profeta Samuele, e ha ricordato come Giuseppe Sarto fu scelto tra gli ultimi indicati dai profeti del tempo; successivamente Roncalli è passato alla inaugurazione del monumentino, regalato da Mons. Zanini, a perenne memoria del Card. Monico, e diceva con parole semplici e piene di buon umore: nelle vetrine della Biblioteca del Patriarca, ci sono file di libri del Card. Monico! Io non ha avuto il tempo di leggerli, ma ci sono. Col senno di poi, diventano emblematiche, sembrano voler dire: "bei tempi, brave persone, ma il passato si è concluso, dobbiamo guardare avanti, guardare con più fiducia e speranza alla storia, al mondo!".
Nel 1818 decise di partecipare al concorso per la parrocchia di San Vito d'Asolo, dove ha ottenuto 102 voti si 103 votanti: per antico privilegio era la popolazione tramite i capifamiglia a scegliere su una terna presentata dal Vescovo. Quali le ragioni di questa partecipazione?
C'era anche in lui il desiderio di una responsabilità pastorale diretta, dopo 18 anni di insegnamento in Seminario e predicatore ambulante da una parrocchia all'altra; c'era la vicinanza alla sua terra natale e, forse, un altro motivo familiare: essere più vicino al fratello Angelo rimasto vedovo, a 33 anni, con la piccola Antonietta di 4 anni. La cognata Candida, sposata con Angelo a 8 anni, moriva a 24 anni. Oltre ad Antonietta, aveva avuto anche due maschietti, morti in tenerissima età.
Entriamo, con delicatezza e rispetto, nel mondo intimo, nei sentimenti del nostro personaggio, che curava i legami familiari, ci teneva alla sua famiglia. E' esemplare la lettera scritta ai fratelli, in occasione della morte della madre, Antonia Cavallin:
"Cari fratelli,
nella nostra buona madre abbiamo perduto un tesoro; ma non sarà perduto definitivamente se noi lo faremo rivivere in noi, in quello spirito che la rese una meraviglia di madre cristiana.
Non dobbiamo dimenticare i suoi esempi, ne abbiamo tanti!, e sono convinto che la benedizione del Signore sarà sulla nostra casa, se vi riposa lo spirito della nostra mamma.
Raccomandate soprattutto alle nostre sorelle e a Candida che giustamente considero come terza sorella, che esse non cerchino altri modelli da copiare di quello che hanno sotto gli occhi: che esse imitino la sua vigilanza continua sulla famiglia, il suo affetto delicato, ma previdente e saggio, per i suoi figli, la sua prudenza eccezionale per mantenere la pace familiare, la sua pietà solida senza affettazione, la sua carità per i poveri, provvedendo alle loro necessità e curando le ferite, la sua rara modestia, il disprezzo per le feste mondane, e infine tutte le virtù che formano il più bel ornamento di una donna, e delle quali fummo fortunati testimoni.
Tutto in lei era irreprensibile e degno di imitazione, Se abbiamo un giusto motivo per piangere la sua perdita, noi abbiamo nel medesimo tempo la speranza che lei abbai a raccogliere il frutto delle sue buone opere.
Preghiamo il Signore di vivere cristianamente come lei, per diventare degni di rivederla in cielo, dove niente ci potrà separare.
don Giacomo Monico"
A San Vito, trovava il tempo per la predicazione, anche fuori parrocchia, e per le poesie dedicate agli amici, agli sposi novelli, ai nuovi parroci, ... Fu invitato a predicare anche in Cattedrale di Treviso. L'Abate Monico fu scelto per l'Orazione funebre nel congedo ad Antonio Canova, il 25 ottobre 1822, a Possagno. E' un discorso accademico, lontano mille miglia dai nostri gusti. Se n'è fatta di strada!
Da tempo aveva attirato l'attenzione dell'Imperatore Francesco I d'Austria, che comandava anche in Italia e aveva il privilegio di presentare al Papa la lista dei nuovi Vescovi: il 22 febbraio fu nominato Vescovo di Ceneda, il 15 maggio dell'anno successivo riceveva la convalida vaticana, il 9 novembre fu consacrato vescovo, a Venezia, nella Basilica di San Marco. Fece il trionfale ingresso a Ceneda il 12 novembre 1823. Aveva 45 anni. Ebbe costante attenzione per il Seminario e per i sacerdoti della diocesi: a Treviso aveva accumulato una ricca esperienza e una buona sensibilità al riguardo. Curava la predicazione e le lettere pastorali, visitava le parrocchie, aveva continua corrispondenza epistolare.
Il 27 ottobre aveva scritto agli amici del Seminario di Treviso:
"Cari amici,
mi è pur dolce la ricordanza di quei giorni beati, che ho passati tra voi. La Provvidenza dispone ora di me altrimenti; ma disgiunto di persona, vi sarò sempre unito d'animo, e coglierò con piacere quelle occasioni, che mi si offriranno, per potervi mostrare col fatto ch'io sono e sarò sempre perpetuamente vostro.
+ Jacopo vescovo eletto di Ceneda"
"La dottrina e le virtù del Monico dall'alto della cattedra vescovile splendettero meglio e più largamente, per cui non è meraviglia se Francesco I, nell'ultimo suo viaggio in Italia, volle visitarlo appositamente nella sua residenza vescovile, entro il vecchio castello della città, che sorge a cavaliere di un'aprica collina. E quando Mons. Pyrker dalla sede patriarcale di Venezia fu traslato a quella di Erlau in Ungheria, ad occupare quella cattedra insigne della Regina dell'Adriatico, con decreto sovrano del 9 novembre 1826, confermato da Leone XIII il 9 aprile del 1827, fu chiamato il vescovo di Ceneda, Mons. Jacopo Monico.
Venezia esultò a quell'elezione, e l'accolse con grande solennità, quando, il sabato 8 settembre 1827, vi fece il suo solenne ingresso. Sei anni appresso, cioè nel concistoro del 29 luglio 1833, Gregorio XVI lo creò Cardinale col titolo dei Santi Nereo ed Achilleo, le insegne del quale onore ricevette solennemente nella Basilica di San Marco il 15 settembre di quello stesso anno. L'esultanza per questa nomina fu grande a Venezia, a Treviso e a Ceneda.
Nel 1846 il Card. Monico si recò a Roma (sebbene non vi giungesse in tempo) per il conclave dal quale il 16 giugno usci papa il Card. Mastai Ferretti, col nome di Pio IX, di sempre cara e santa memoria."
"La vita del Monico, come Patriarca di Venezia, corse abbastanza tranquilla fino al 1848. In quest'anno cominciarono le amarezze."
In quegli anni nascevano movimenti popolari di base per l'indipendenza d'Italia dagli stranieri, e più tardi per l'unità della Nazione italiana: giusta aspirazione, che però provocava lacerazioni, tra cittadini, non ancora preparati, preoccupati di un domani incerto. Anche all'interno della Chiesa, e anche tra gli ecclesiastici c'erano opinioni diverse. Non mancavano i 'nazionalisti' e gli anticlericali che volevano la fine dello Stato pontificio. C'erano dibattiti e anche scontri aperti nelle piazze: il disagio aumentava. I primi a farne le spese, bersaglio delle critiche erano il Papa e i Vescovi, almeno quelli considerati conservatori dell'ordine e difensori dei diritti pontifici.
Il Patriarca Monico, di natura mite e moderato, ma per educazione legato alle regole della Chiesa cattolica, lontano dai compromessi della diplomazia, poco duttile alla mediazione, prese apertamente le difese del Papa, non nascose le sue preoccupazioni nei confronti dei una eventuale indipendenza, e divenne obiettivo dichiarato degli strali dei suoi nemici. Pio IX dovette riparare a Gaeta, Monico si rifugiò nell'isola degli Armeni, per alcuni giorni su consiglio delle autorità. Si dice che i suoi detrattori abbiano tappezzato i muri della città con scritte offensive, si dice pure che sia stato sparato un colpo difficile contro la sua abitazione.
Passata la tempesta, cominciò ad abitare nell'attuale 'Patriarchìo', da poco ultimato. Il suo animo sensibile e delicato restò fortemente scosso. Il giorno di Pasqua, 20 aprile 1851, nella Basilica di San Marco, durante l'omelia, fu sorpreso da "aneurisma al cuore". Fu trasportato in patriarcato, dopo pochi giorni, cessò di vivere. Era il 25 di aprile, festa di San Marco. Aveva 73 anni. Gesù Salvatore lo aveva associato al suo mistero pasquale, prima nelle umiliazioni e sofferenze, poi nella malattia nella festa di Pasqua, e l'ha accolto e glorificato nella festa di San Marco. Qualcuno afferma, che poco prima di morire, sentendo suonare il campanone del campanile della Basilica, abbai sussurrato: "San Marco piange!"
Gli elogi funebri furono recitati dai professori del Seminario, nel funerale da Mons. Trevisanato, successivamente Arcivescovo di Udine e poi Cardinale Patriarca di Venezia, e in altra circostanza da Mons. Federico Maria Zinelli, divenuto poi Vescovo di Treviso.
Il Patriarca Monico e stato sempre legato al Seminario, lo visitava frequentemente, chiedeva consiglio ai Superiori, si interessava degli alunni, era oggetto delle sue cure. A quell'Istituto ha lasciato una parte della sua eredità, e alla Biblioteca gli scritti del cugino don Giuseppe che aveva avuto in consegna alla di lui morte, ha desiderato la sepoltura nella Basilica della Salute, vicino al Seminario.
Aveva una predicazione accurata, pur negli schemi e con le categorie del tempo, scrisse tante lettere pastorali, dove si notano le preoccupazioni per i mali del tempo. Conosceva e amava i Sacerdoti, visitava le parrocchie.
In sintesi era un grande letterato, cultore dei classici greci e latini, di temperamento mite; il suo stile pastorale più di conservazione che di innovazione.
A Riese vien ricordato come mecenate del quindicenne Giuseppe Sarto, che ottenne un posto gratuito in nel Seminario di Padova: tramite l'arciprete don Tito Fusarini, il papà di Giuseppe, Giovanni Battista, si rivolse a Mons. Giovanni Casagrande perchè facesse la domanda direttamente al Patriarca Monico, sapendo la sua origine pure di Riese. E il Patriarca rispose affermativamente al Casagrande.
Un altro motivo di riconoscenza verso il Patriarca Monico da parte di Riese: è grazie alla sua devozione verso la Madonna di Cendrole, come quella del padre Gio.Battista, se in quel Santuario ci sono ancor oggi i due grandi quadri del presbiterio raffiguranti il 'sacrificio di Noè dopo il diluvio' e il 'sacrificio del profeta Elia' dei pittori Gregorio Lazzarini e Luca Giordano.
Jacopo Monico
parroco di s. Vito d'Asolo (1818-23):
un letterato trevigiano in cura d'anime
di Giacinto Cecchetto
Giovedì 28 maggio 1818, alle dieci del mattino, 103 capifamiglia di S.Vito si radunarono nella chiesa parrocchiale per eleggere il loro nuovo parroco, alla presenza di Angelo Zanardini, Regio Cancelliere Distrettuale, e di due dei tre membri della Deputazione Comunale di Altivole (1).
L'evento si spiega con la presenza in S. Vito fin dal 1447 di un giuspatronato laicale che attribuiva per metà al popolo di questa parrocchia e per metà al Preposto di Asolo la facoltà di presentare al vescovo trevigiano il proprio curato, eletto fra una terna di candidati (2). Fu votato per primo il Monico. Dalla ballottazione uscirono 102 voti favorevoli per il sacerdote di Riese ed uno solo contrario, mentre don Bergami non ottenne che 15 voti favorevoli ed 88 contrari (3).
Jacopo Monico fu dunque proclamato parroco di S. Vito d'Asolo pressoché all'unanimità, se è vero, come scrive il Chimenton, che «quel solo contrario, essendo molto vecchio protestò che diede il voto per il no per mero sbaglio assicurando che la sua volontà si univa pienamente agli altri tutti» (4).
Monico non era uno sconosciuto a S. Vito, visto che il suo paese natale, Riese, non distava che qualche chilometro dalla sua parrocchia (5) ma, soprattutto, considerata la solida fama di letterato ed educatore maturata in ben diciotto anni di attività, a partire dal 1800, presso il Seminario diocesano! (6).
Si può anzi dire che la cura di S. Vito, ritenuta non eccessivamente onerosa, fosse stata assegnata al Monico allo scopo di consentirgli la continuazione della sua pratica letteraria, pur nell'ambito d'una missione sacerdotale che rimaneva prioritaria. Insomma si ripeteva per il futuro vescovo di Ceneda e patriarca di Venezia quello che già era avvenuto per altri sacerdoti dediti alle lettere come Angelo Dalmistro, divenuto parroco a Coste di Maser (7), come Giuseppe Monico, cugino di Jacopo, nominato curato di Postioma, ed infine come Lorenzo Crico per molti anni parroco di Fossalunga (8).
Dicevamo che nel 1818 Monico era già attivo protagonista del piccolo mondo letterario trevisano, come segretario per le lettere dell'Ateneo di Treviso (9) e in qualità di membro dell'Accademia dei Filoglotti di Castelfranco (10). L'esperienza letteraria, indirizzata prevalentemente all'eloquenza ed alla poesia, accompagnò tutta la sua vita, ma fu particolarmente intensa durante il suo «curriculum studii», iniziato in Seminario all'età di 15 anni (Monico era nato nel 1778), culminato con l'ordinazione sacerdotale a soli 22 anni l'anno 1800, proseguito, poi, con l'insegnamento della grammatica media sino al 1801, della grammatica superiore sino al 1804 e, in seguito, sino al 1818, della retorica ed accademia (11).
E' appunto in quest'ultima materia che Monico eccelle. Le accademie poetiche che in ogni anno si tengono in Seminario lo vedono primeggiare per erudizione e mestiere! (12) Mestiere, certo, perché, a mio parere, è questa la sua dote migliore. Ci sa fare Monico con le rime, rime di ogni genere e metro, ed anche, nel suo futuro di parroco, vescovo e cardinale, con omelie, lettere pastorali ed istruzioni al clero. I limiti della sua esperienza letteraria stanno nella perfetta adesione ai canoni del più rigoroso neoclassicismo (13).
Il suo è un'estenuante di occasione e non, che lo tengono impegnato anche oltre le soglie dell'episcopato cenedese. I classici costituiscono per lui un riferimento fondamentale ed onnipresente. Ma nei suoi versi la reinvenzione è priva del soffio della poesia vera, è lontana da tensioni umane ed esistenziali che la sublimino oltre il mero e strumentale involucro della parola, anche se vi sono, come sostiene Tramontin, alcuni componimenti «... che si distinguono per un certo sentimento da cui non sembrano estranei i primi influssi del romanticismo ... ma non ne mancarono altri, come ''I poeti italiani'', in cui lo spirito italico si fa nettamente sentire, o ancora ''Gli uccelli'', ''I sistemi filosofici sul globo terracqueo'', dove è presente l'amore per la natura, come luogo di manifestazione del divino, o quello per la filosofia della natura come spiegazione razionale dell'universo» (14).
Gli otto volumi delle Opere sacre e letterarie di Jacopo Monico, stampate a Venezia tra il 1864 ed il 1872 (15), contengono materia abbondante per elaborare un giudizio sul letterato ed il poeta, giudizio che solo per i contemporanei fu pienamente positivo. Si pensi al Tessarin, il quale, a proposito delle accademie poetiche del Seminario trevisano, sosteneva che era atteso «... con vivo desiderio quel giorno, in cui nei trattenimenti accademici pareva che Omero, Virgilio, Orazio, Giovenale, Demostene e Cicerone, i quattro classici poeti italiani, non meno che il fiore dei prosatori che abbellano la lingua d'Italia sulle labbra del Monico fossero tornati a vita novella» (16).
Lo stesso Nani Mocenigo nella sua Letteratura veneziana del secolo XIX aveva definito la poesia di Monico «... eccellente ... fatta di versi temperati e sentimenti dolci e soavi quali era il carattere suo» (17). Traduttore del secondo, terzo e quarto libro della Eneide, del Parto della Vergine del Sannazzaro e della Cristiade del Vida (18), scrive Tramontin «... quasi ad associare i suoi interessi umanistici e cristiani ...» (19), Jacopo Monico fu, quindi, un perfetto interprete del più rigido ed omologato formalismo accademico prodotto dal soffocante ed asfittico clima culturale del Veneto austriaco. Quando il Monico arrivò nel 1818 a San Vito certamente avvertì che la cura delle anime era molto meno lieve di quanto pronosticato, e comunque tale da privarlo di molto del tempo che avrebbe sperato di poter dedicare alle sue attività preferite.
Il 19 dicembre 1819 il novello parroco di S. Vito si esprimeva in questo senso in una lettera indirizzata all'arciprete di Riese, al quale spiegava che «... i pensieri molesti di una Parrocchia, spezialmente in questa sorte di anni, sono gran nemici delle gioconde e pacifiche Muse ... Il mio terzo libro dell'Eneide giace da molto tempo sospeso» (20). Queste parole sono tratte da una lettera appartenente ad un ampio epistolario del quale mi sono servito per indagare il periodo passato a S. Vito da Monico e che offre l'opportunità di scoprire alcuni altri aspetti inediti della sua personalità, che non è limitata solo a quella monocorde del letterato, ma rivela anche quelli altrettanto e più interessanti del pastore preoccupato e dell'uomo di spirito, amante della buona cucina, dello scherzo verbale e della battuta.
Quanto al Monico curato è trasparente in più di una lettera la sua dedizione ai fedeli di S. Vito. Il 27 ottobre 1821, ad esempio, scrive all'amico e parente abate Antonio Favero di Castelfranco, membro di una famiglia benestante: «Convien ch'io rinunzj all'idea lusinghiera di esser teco lunedì p.o v.o la mia cavalla malamente inferrata in un piede anteriore è zoppicante, ed ha bisogno di medicatura, e di riposo. Tu mi dirai di mandarmi a prendere colla tua; ma la qualità della stagione, la vicinanza dei Santi, e per conseguenza il concorso dei Devoti al confessionale in tutte le mattine antecedenti alla festa mi farebbero partir di qua poco volentieri. Lasciamo dunque andare questa occasione, ed aspettiamone un'altra più favorevole» (21).
L'anno successivo Monico declinò per l'ennesima volta l'invito dell'amico Favero motivandolo in questo modo: «... perché spezialmente in questa settimana debbo attendere al confessionale ogni mattina in preparazione della festa del Carmine, e perché ho in Parrocchia varie inferme mie penitenti, una delle quali è in grave e prossimo pericolo di vita. Abbimi adunque, torno a dirlo, per iscusato. Perché queste son ragioni, credo, più giuste che quelle degl'incivili invitati dell'Evangelio» (22).
A tutto ciò il Monico aggiungeva cicli di predicazione lontano da S.Vito, che aumentavano la mole dei suoi impegni complessivi di parroco ed uomo di lettere ad un tempo. E in quest'ultima funzione, non disgiunta dalla memoria della sua esperienza di educatore in Seminario, aprì nella casa canonica di S. Vito un collegio, nel quale insegnava ad alcuni giovani del luogo e del quale fa pure cenno in una delle sue lettere, datata 6 dicembre 1819: «Ho cominciato il mio piccolo collegio con due figli di Giacinto, ed uno di Bottio, che dorme dal Cappellano. Ecco una nuova aggiunta alle mie solite cure» precisa Monico all'amico Antonio Favero (23).
Dalla didattica alla cura d'anime il passo era breve. «Oggi sono stato in confessionale fino ad un'ora pom.a. Dopo pranzo ho girato fino a sera per la benedizion delle case. Ora il mio oriuolo segna le dieci. Sono stanco morto, e domani bisogna alzarsi alle cinque per fare quello che si è fatto oggi» (24). «Oh che folla al mio confessionale!», scrive ancora Monico a Favero il 22 dicembre 1818, «questo è ben altro che far sonetti» (25).
Alle preoccupazioni per la salute spirituale della parrocchia si alternano quelle relative a vicende più contingenti, ma per questo non meno importanti, «che vita tribolata è mai questa!», esclama Monico scrivendo a Favero il 17 agosto 1820. «Non ho un momento di tranquillità. Anche il parditor della Brentella, che ora si sta piantando al Barco mi cagiona delle molestie, e delle spese. Nella facciata della chiesa un nuovo disordine. Si è scoperto ultimamente marcio un legno dell'architrave, a cui si appoggia tutta la gravità della mole superiore. Oggi bisogna che vada in traccia dell'Architetto, e non so come vi si potrà riparare. Lasciamo stare la disgrazia comune della siccità, che rende tristo il presente, e da temer peggiore il futuro. E quel che più mi spaventa si è che mens egra torquetur, et cervix non flectitur» (26).
Qualche mese dopo le cose sono peggiorate: «Sono stato tre giorni in gravissime angustie» - si sfoga Monico con l'abate Favero in una lettera del 30 novembre 1820 - «temendo un immenso precipizio nella facciata della mia chiesa; e jeri spezialmente gli stessi lavoratori colti da un timor panico anziché ragionevole ma per altro perdonabilissimo, erano discesi dall'armatura, risoluti di non voler più metter mano al lavoro. Ma oggi, grazie a Dio, le cose cangiarono aspetto, ed il nostro bravo Pedrini rimediò perfettamente al male dell'architrave, e ci assicurò da ogni pericolo anche per l'avvenire» (27).
Gli assilli della parrocchia e le gioie della tavola unite a battute di spirito spesso si alternano nell'epistolario tra Monico ed Antonio Favero. Ne dò alcuni brevi saggi. Il 7 maggio 1821 Monico manda «un'asolana focaccia» ai Favero, «che desidera trovar tomba onorata nella vostra delicatissima pance» (28). In ottobre scrive all'amico Antonio Favero: «Caffè e zucchero in cambio di poca uva! Capperi! Tu hai un bruolo ben più raro del mio, se vi raccogli cotal sorta di frutti. Il cielo te ne mandi sempre in abbondanza, e se vorrai, faremo poi un perpetuo commercio» (29).
Chiudo con un piccolo capolavoro del genere epistola re, datato 2 luglio 1821: «Disgrazia grande mi accadde 'da piangere a cald'occhi e spron battuti'. Nella mia stia vìveano da gran tempo due capponi da buoni fratelli, aspettando ansiosamente il giorno che tu fossi venuto a manicarne i lombi colla tua buona cognata: ma stanchi di tanto aspettare, non so come, pensarono di andarsene ambedue a mangiare il miglio de' Campi Elisj. La serva li trovò una mattina l'un morto e l'altro spirante, e credo che li abbia creduti strozzati dal Mazzaruolo. Intanto addio capponi, e tu quanto verrai, se pur verrai, troverai forse appena una tecchia di radicchj pesti, e ben ti starà in pena di tanta pigrizia» (30).
Il 27 agosto 1818, in procinto di entrare in S. Vito, Monico ironizzava in questo modo sulla zoppìa leggera che affliggeva sé e l'«aureo amico» castellano: «Sospendi ogni ordinazione di ciambelle e di dolci, perché il mio ingresso sarà probabilmente affatto muto, ed improvviso. Tu per altro ne saprai l'ora ed il giorno, e se volessi assistermi da Diacono alla Messa, mi faresti un sommo piacer, quando però non t'incresca, né ti paja che sia pericolo di eccitare il riso del popolo, essendo zoppo anche il cappellano» (31).
Par di capire dalle oltre duecento lettere viste che, tutto sommato, l'incarico pastorale quinquennale a S. Vito sia stato anche se faticoso, in qualche modo sopportabile per Jacopo Monico. Sopportabile al punto da permettergli di tener alta la considerazione di cui già godeva in ambienti curiali ed imperiali, per esempio con «performances» di grande effetto come l'orazione, detta la «Canoviana», letta a Possagno il 25 ottobre 1822 in occasione dei solenni funerali di Antonio Canova (32), quel Canova che per Monico costituiva oggetto di autentica venerazione. Ne scrisse in termini entusiastici due volte all'amico Favero: il 1° luglio 1819 esultava: «Martedì sera arrivò a Possagno il lume dell'Italia, e del nostro secolo, l'immortale Canova. Quanti beni apporterà a quel paese questa venuta!» (33); poi ancora il 9 luglio: «mercordì alle dieci della sera il Sig.r Ettore Rinaldi mi procurò l'invidiabile fortuna di trattenermi mezz'ora in Asolo col primo uomo del nostro secolo, coll'immortale Canova. Io lo guardava con una specie di venerazione per la fama del suo merito incomparabile e m'innamorò l'affabilità e la piacevolezza singolare delle sue maniere» (34).
Monico lesse la «Canoviana» con in tasca, se così si può dire, il decreto imperiale di nomina a vescovo di Ceneda, sottoscritto da Francesco I, imperatore d'Austria, il 21 marzo 1822, decreto che poneva fine, di fatto, al suo soggiorno di San Vito. Ne parlava con emozione al Favero in una lettera scritta il giorno successivo, 22 marzo: «Ieri ebbi il gran Decreto Reale, accompagnato da onorifica lettera dell'I.R. Presidio Governiale di Venezia. Il Preposto di Asolo me ne anticipò l'avviso, ed accompagnò personalmente il Commesso della Posta per mitigar l'impressione che dovea farmi un tal colpo. Molti amici convennero qui per confortarmi. La mia angustia è grandissima; procuro però di darmi animo, e spero tutto dal cielo. Mi pare che il Signore ripeta anche a me quelle parole che disse agli Apostoli, avviandosi alla passione: surgite eamus. Dunque andremo. Martedì a Treviso, mercordì a Venezia, e poi dove Iddio ci chiamerà» (35).
La designazione imperiale fu accettata dal pontefice Pio VII il 16 maggio 1823, ed il Monico fu consacrato vescovo di Ceneda dal Patriarca di Venezia, Giovanni Ladislao Pirker, il 9 novembre successivo. L'8 settembre 1827 il papa Leone XII chiamò Monico al patriarcato veneziano e sei anni dopo, il 29 luglio 1833, fu vestito della porpora cardinalizia da papa Gregorio XVI (36).
Morì il 25 aprile 1851 dopo essere stato a Venezia protagonista d'una intensa, complessa e molto discussa attività pastorale, che lo vide duramente contrapporsi a Daniele Manin e Nicolò Tommaseo nel drammatico biennio 1848-49, accentuandone l'immagine di uomo della restaurazione che la storiografia contemporanea, pur con qualche approssimazione, conferma ancor oggi (37).
Note:
- Archivio Curia Treviso, S. Vito d'Asolo, busta 219: Verbale dell'elezione del parroco di S. Vito, 28 maggio 1818.
- Giacinto Cecchetto, Altivole, Dosson di Casier, 1988, p. 151.
- Costante Chimenton, Nel centenario della morte del cardinal Jacopo Monico. 25 aprile 1851-25 aprile 1951, s.l., 1951, p. 25.
- Chimenton, op. cit., p. 25. Cfr. anche: Bertoli B., Tramontin S., Le visite pastorali di Jacopo Monico nella diocesi di Venezia, Roma, 1976, p. XI. Il Marchesan ed il Chimenton lo dicono fi glio di Giambattista, fabbro di Riese, e di Antonia Cavallin (cfr. Marchesan A., Papa Pio X nella sua vita e nella sua parola, Einsielden (Svizzera), 1904, p. 50; Chimenton C, op. cit., p. 11), mentre il Bertoli ed il Tramontin parlano di Adamo ed Angela Cavallin (Bertoli B., Tramontin S., op. cit., p. IX). Questi ultimi scrivono che il Monico fu allievo del parroco di Altivole, prima del suo ingresso in Seminario. Dal canto suo Francesco Scipione Fapanni sostiene che Jacopo, da fanciullo, abbia ricevuto la sua prima educazione elementare dall'arciprete Bellati di Silvelle (Biblioteca Comunale Treviso, Fapanni F.S., Notizie degli scrittori e degli uomini illustri che fiorirono nell'antico territorio trevigiano, nonché nella Diocesi di Treviso e Ceneda, ms. 1354, vol. VIII, c. 95v, sec. XIX).
- Chimenton C, op. cit., pp. 10-19.
- Galvagno Rosalba, Angelo Dalmistro, in: Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XXXII, Roma, 1986, pp. 153-57.
- Paolo Preto, Lorenzo Crico, in: Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XXX, Roma, 1984, pp. 758-761.
- Marchesan A., op. cit., p. 101 e p. 113; Chimenton C., op. cit., p. 27.
- Ottone Ciardulli, L'Accademia dei Filoglotti di Castelfranco Veneto (1815-47), Castelfranco Veneto, 1915.
- Biblioteca Comunale Treviso, Fapanni F.S., op. cit., c. 95v.
- Chimenton C, op. cit., pp. 14-16.
- Bertoli B., Tramontin S., op. cit., p. X.
- Bertoli B., Tramontin S., op. cit., p. X.
- Jacopo Monico, Opere sacre e letterarie, Venezia, 1864-1872, vol. 8.
- Antonio Tessarin, Delle lodi dell'eminentissimo cardinale Jacopo Monico..., Venezia, 1851, p. 10.
- Filippo Nani Mocenigo, Della letteratura veneziana del secolo XIX. Notizie ed appunti, Venezia, 1916, pp. 339-346.
- Bertoli B., Tramontin S., op. cit., p. X.
- Bertoli B., Tramontin S., op. cit., p. X.
- Fondazione Giuseppe Sarto - Riese Pio X, Lettera di Jacopo Monico all'arciprete di Riese, da S. Vito d'Asolo, 10 novembre 1819.
- Biblioteca Comunale Castelfranco Veneto, Lettera di Jacopo Monico all'abate Antonio Favero di Castelfranco Veneto, da S. Vito d'Asolo, 27 ottobre 1821,
- Biblioteca Comunale Castelfranco Veneto, Lettera di Jacopo Monico all'abate Antonio Favero, da S. Vito d'Asolo, 13 luglio 1822.
- Biblioteca Comunale Castelfranco Veneto, Lettera di Jacopo Monico all'abate Antonio Favero, da S. Vito d'Asolo, 3 aprile 1819.
- Biblioteca Comunale Castelfranco Veneto, Lettera di Jacopo Monico all'abate Antonio Favero, da S. Vito d'Asolo, 6 dicembre 1819.
- Biblioteca Comunale Castelfranco Veneto, Lettera di Jacopo Monico all'abate Antonio Favero, da S. Vito d'Asolo, 22 dicembre 1818.
- Biblioteca Comunale Castelfranco Veneto, Lettera di Jacopo Monico all'abate Antonio Favero, da S. Vito d'Asolo, 22 dicembre 1818.
- Biblioteca Comunale Castelfranco Veneto, Lettera di Jacopo Monico all'abate Antonio Favero, da S. Vito d'Asolo, 17 agosto 1820.
- Biblioteca Comunale Castelfranco Veneto, Lettera di Jacopo Monico all'abate Antonio Favero, da Riese, 30 novembre 1820.
- Biblioteca Comunale Castelfranco Veneto, Lettera di Jacopo Monico all'abate Antonio Favero, da S. Vito d'Asolo, 7 maggio 1821.
- Biblioteca Comunale Castelfranco Veneto, Lettera di Jacopo Monico all'abate Antonio Favero, da S. Vito d'Asolo, 11 ottobre 1821.
- Biblioteca Comunale Castelfranco Veneto, Lettera di Jacopo Monico all'abate Antonio Favero, da S. Vito d'Asolo, 2 luglio 1821.
- Biblioteca Comunale Castelfranco Veneto, Lettera di Jacopo Monico all'abate Antonio Favero, da S. Vito d'Asolo, 27 agosto 1818.
- Jacopo Monico, Orazione letta in Possagno ne' solenni funerali di Antonio Canova, Venezia, 1823.
- Biblioteca Comunale Castelfranco Veneto, Lettera di Jacopo Monico all'abate Antonio Favero, da S. Vito d'Asolo, 1° luglio 1819
- Biblioteca Comunale Castelfranco Veneto, Lettera di Jacopo Monico all'abate Antonio Favero, da S. Vito d'Asolo, 9 luglio 1819.
- Biblioteca Comunale Castelfranco Veneto, Lettera di Jacopo Monico all'abate Antonio Favero, da S. Vito d'Asolo, 22 marzo 1822.
- Cecchetto G., op. cit., p. 176.
- Paolo Pecorari, Motivi d'intransigentismo nel pensiero del patriarca di Venezia Jacopo Monico durante il biennio 1848-49, in: Nuovo Archivio Veneto, XCIII, pp. 41-64; Silvio Lanaro, Genealogia di un modello, in: Storia d'Italia. Le regioni dall'unità ad oggi. Il Veneto, Torino, Einaudi, 1984, p. 35.
Fonte: Trevigiani Illustri, tra Settecento e Ottocento. 1 edizione 2011, copyright © 2011, ISBN 978-88-96032-13-8. ISTRIT, Via Sant'Ambrogio in Fiera 60, 31100 - TREVISO. Email: ,