Sono passati più di 110 anni da quando l’Italietta cantava «Tripoli, bel suol d’amore» e Giovanni Giolitti la lanciava nel conflitto italo-turco più noto come guerra di Libia sin qui raccontata in tanti libri (da quelli di Francesco Malgeri o di Sergio Romano ai più recenti di Fabio Gramellini, Ezio Bartalini con Eugenio Guarino o Alberto Caminiti).
Quello che il Corriere della Sera descriveva come un Eden pieno di ricchezze naturali e che Gaetano Salvemini definiva "uno scatolone di sabbia" (non si era ancora scoperto il petrolio) dalla fine del settembre 1911 fu per mesi la meta delle nostre truppe impegnate a sottrarre Tripolitania e Cirenaica alla Turchia, ribattezzate con il nome latino dell’antica colonia romana – assente dalle carte geografiche.
C’è però ancora qualcosa da approfondire. Nella dote di una nuova terra – l’unica, sul Mare Nostrum, non occupata dagli Stati coloniali come Francia e Inghilterra – con quelli geopolitici si facevano coincidere interessi nazionali e idee condivise nel segno prima di una presunta azione civilizzatrice, poi di una nuova crociata. Dunque, si trattò sì di una vicenda da collocare nel quadro del colonialismo europeo e del nazionalismo italiano (per il giovane Mussolini un "atto di brigantaggio internazionale"), ma che ebbe pure conseguenze sul percorso del popolo italiano.
Tra queste, meno evidente, ma non irrilevante, la premessa per l’integrazione dei cattolici – dopo la loro posizione legittimante la guerra e il loro sacrificio alla patria – nello Stato nazionale. Le promesse di benefici economici, di sale e di zolfo, di prestigio internazionale e soprattutto di uno sbocco per centinaia di migliaia di emigranti avevano infatti convinto non solo liberali, nazionalisti, parte dei socialisti, ma anche i cattolici. E questo sin dall’apertura del conflitto.
L’adesione non solo ci fu. Ma vide un entusiasmo condiviso da fedeli, clero, vescovi. Ad alimentarlo ci pensarono anche le testate cattoliche della Società editrice romana (diretta da Giovanni Grosoli e legata al Banco di Roma con interessi in Libia, finanziatore della spedizione), ma soprattutto lo zelo di una parte dell’episcopato italiano che, nell’interesse per una soluzione ai problemi di tanti emigranti e nel turbinio delle sue 'orazioni pro tempore belli', finì per sovrapporre alle ragioni politiche quelle di una nuova guerra cristiana contro i turchi.
Insomma: una nuova crociata contro l’islam. Sino a considerare i nostri caduti in battaglia come nuovi martiri. Così violenti i toni di certi membri delle gerarchie ecclesiastiche (che parlavano dei "turchi sempre tanto avidi del sangue cristiano"), così irritante la santificazione della guerra liberale col contributo cattolico, che Pio X, preoccupato per un conflitto sempre più mascherato come religioso, intervenne con una nota affidata all’Osservatore Romano, che il 21 ottobre 1911 scriveva:
"È lontanissimo da ogni cattolico italiano il pensiero che l’impresa tripolitana possa coprire una guerra a base religiosa".
Nello stesso giorno il vescovo di Rimini Scozzoli auspicava una vittoria come "via di civiltà cristiana in mezzo alle popolazioni di Tripoli e Cirenaica tenute schiave dal fanatismo mussulmano". I presuli, di fatto ignorarono le direttive vaticane; tutt’al più attenuando nelle forme, non nella sostanza, le loro pronunce. Dietro di loro, larghe fasce di clero e fedeli. Ma, consapevolezze postcoloniali a parte, torniamo agli incroci fra religione e politica, cattolici e Stato. Sul tema vale la pena riprendere il giudizio di Giovanni Sale che, recentemente su 'Jesus', ha scritto in proposito:
"A parte le ambiguità affaristiche dell’impresa coloniale e le atrocità che la guerra avrebbe provocato, il mondo cattolico per la prima volta dall’Unità d’Italia si sentì 'dentro la nazione'. Tale inserimento dei cattolici nella vita pubblica diede i suoi primi frutti due anni dopo, nelle elezioni del 1913, con il Patto Gentiloni e soprattutto con la nascita del cattolicesimo politico otto anni dopo.
"Paradossalmente la guerra di Libia contribuì più di molti proclami e interventi governativi a fare la nazione italiana, a riabilitare in qualche modo i cattolici dal sospetto radicato in molti settori della borghesia liberale di essere antinazionali e anti-italiani".
Ad osservare poi come "il nazionalismo cattolico, funzionale all’ingresso dei credenti nella vita pubblica, fosse altresì frutto d’una profonda convinzione, che nella pubblica professione della fede individuava il necessario presupposto dell’affemazione internazionale e militare del regno di Cristo e della Chiesa" è invece Giovanni Cavagnini sul nuovo numero della 'Rivista di storia del cristianesimo', ricordandoci il duplice effetto di quel mescolamento tra sacrificio per la patria e sacrificio per la fede, fra bellicismo patriottico, nazionalismo cattolicesimo, evangelizzazione e sfruttamento: pose "le premesse del martirologio coloniale" e mandò un chiaro messaggio sulla "compatibilità perfetta tra cattolicesimo e italianità autentica".
Ecco una pista da esplorare a fondo per capire l’ingresso dei cattolici nello Stato, il significato della religione nella vita del Paese, la sacralizzazione del 'pro patria mori'. Qualcosa che vale anche per l’oggi? Se lo chiede, a ragione, Daniele Menozzi proprio aprendo l’ultimo numero della 'Rivista di storia del cristianesimo':
"Può il moderno Stato nazionale ottenere l’esecuzione dei doveri che impone, specie se mettono in gioco il diritto alla vita, senza legittimazione religiosa?".
Resta il fatto che, chiusa la guerra di Libia, la stessa situazione si sarebbe riproposta con la Grande guerra e con le stesse risposte tra Santa Sede, gerarchie ecclesiastiche, mondo cattolico. Così la legittimazione nazionale dei cattolici fu completa: Filippo Meda fu il primo cattolico ad entrare nel governo italiano, già durante il conflitto.
Il passo successivo fu, nel 1919, la nascita del Partito popolare italiano. Nelle prime elezioni del dopoguerra (abrogato definitivamente il 'non expedit' di Pio IX, già attenuatosi dal 1904), la formazione voluta da don Sturzo si procurò un centinaio di seggi alla Camera dei deputati: un quinto dei suffragi.
Fonte: Marco Roncalli in Avvenire.it (20/11/2011)
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