Conferenza letta a Trento il 3 novembre 2007 da Valentino Miserachs Grau, allora preside del Pontificio Istituto di Musica Sacra e direttore della Cappella Liberiana, pubblicata su "L'Osservatore Romano" del 5 novembre 2007.
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Non vengo a Trento – è sempre tanto bello stare qui! – per tenere una conferenza vera e propria, ma per farvi partecipi di qualche informazione che può tornare utile, e di qualche riflessione sul tema che mi è stato proposto, in un clima di franca schiettezza e di serena amicizia, congratulandomi sin dall’inizio di quanto si sta facendo per festeggiare l’ottantesimo anniversario di attività dell’Istituto Diocesano di Musica Sacra di Trento, fondato nel 1927 da Mons. Celestino Eccher, a conclusione dei suoi studi musicali presso il nostro Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma. Sono lieto di fungere, in certo qual modo, da legame ideale fra Trento e Roma, fra il vostro e il nostro Istituto, il quale si avvia altresì a grandi passi alla commemorazione del suo centenario di fondazione nel 1911 ad opera del santo pontefice Pio X.
Scrivevo nella presentazione del primo volume di “Excitabo auroram”, edito recentemente dalla LEV e dal PIMS, che raccoglie varie mie conferenze in varie lingue, a seconda degli spazi ove sono state pronunciate:
"Il contenuto delle singole conferenze (...) propone ripetutamente gli argomenti contenuti negli scritti più corposi (...) Cionondimeno, in ogni singolo scritto c’è pur sempre qualcosa di nuovo che ci consente, in certo modo, di seguire l’evoluzione della problematica in questione (la Musica Sacra) nel giro di questi ultimi decenni".
Dicevo nella conferenza "Chiesa e Musica Sacra, passato, presente e futuro", nel 2002:
"Dal 1995 (data della mia nomina a preside del PIMS) le mie attività prettamente musicali (che io sono stato e sono tuttora più che altro un musicista attivo, un maestro di cappella) hanno subito un rallentamento dovuto agli impegni e agli obblighi derivanti dalla direzione dell’Istituto (...). Inoltre, mi è caduta sulle spalle una sorta di responsabilità morale relativa alla situazione generale della Musica Sacra nella Chiesa cattolico-romana. Molti si rivolgono all’Istituto come se fosse un organo con facoltà normative in fatto di musica liturgica, mentre esso altro non è che una istituzione accademica che ha per missione l’insegnamento – e la pratica, naturalmente – della Musica Sacra.
"Pensandoci bene, però, mi sono reso conto che non esiste uno specifico organismo pontificio di vigilanza sulla musica liturgica. All’interno stesso della Congregazione per il Culto Divino (l’antica Congregazione dei Riti), che dovrebbe essere l’organismo più interessato al problema, non esiste, almeno a conoscenza del Preside dell’Istituto, alcuna commissione specifica in proposito; di qui la scarsità di documenti ecclesiali in materia. All’infuori del cap. VI della costituzione Sacrosanctum Concilium del Vaticano II dedicato alla musica sacra (1963) e della successiva istruzione sulla musica sacra nella liturgia (Musicam sacram) della già Congregazione dei Riti (5 marzo 1967), pochissime altre cose sono state dette sull’argomento. Questa sorta di silenzio ha di fatto consentito, pur accanto a nobili sforzi per seguire il retto cammino, un’anarchica proliferazione dei più disparati esperimenti – condotti forse in buona fede – che, in molti casi, hanno introdotto nella musica liturgica un cumulo di banalità mutuate dalla musica leggera di consumo o di altri stravaganti prodotti esotici, dimenticando quanto lo stesso Paolo VI aveva detto, nel 1968, rivolgendosi ai partecipanti al congresso nazionale dell’AISC (Associazione Italiana di Santa Cecilia): Non tutto ciò che è fuori del tempio è atto a superarne la soglia".
Dal 1995 sono passati quasi tredici anni, e io non so per quanto tempo ancora sarò a capo del nostro amato Istituto. Certo, non ho mai perso l’occasione – al punto di poter pubblicare questo volume, e un’altro è quasi pronto per la stampa – di denunciare una situazione di degrado evidente nel campo della musica liturgica, in Italia, ma non solo. Diciamo che ci sono delle rare eccezioni, che magari caratterizzano tutto un territorio, come vorrei credere che succeda in una regione e in una città che, fra tanti timbri di gloria, ha quello di essere conosciuta universalmente a causa di quel Concilio che, anche in campo liturgico e musicale, cercò a suo tempo di raddrizzare le cose. Non ci poteva riuscire nel canto gregoriano, segnato da una profonda decadenza, e che approdò alla famigerata edizione “medicea”. Vi riuscì invece nella polifonia, ottenendo da essa una più grande aderenza testuale, liturgica, additando il canto gregoriano come sorgente tematica feconda e ineludibile.
Quanto siamo lontani dal vero spirito della musica sacra, cioè, della vera musica liturgica! Non mi dilungherò in un problema che è agli occhi di tutti. Cito solo ancora un paragrafo della stessa conferenza:
"Se riconosciamo dignità e qualità ad alcune composizioni di musicisti locali e forestieri, e lo sforzo, per nulla facile, di dotare le nostre liturgie di un degno repertorio musicale, come possiamo sopportare che un’ondata di profanità inconsistenti, petulanti e ridicole abbiano acquistato con tanta faciloneria diritto di cittadinanza nelle nostre celebrazioni? Ci sbagliamo di grosso se pensiamo che la gente debba trovare nel tempio le stesse sciocchezze che le vengono propinate fuori; la liturgia deve educare il popolo – giovani e bambini compresi – in tutto, anche nella musica".
Se, nel corso dei secoli, ogni abuso e degenerazione ha provocato una sana reazione della Chiesa, una “riforma”, come fu il caso già accennato del Concilio di Trento, toccò poi a S. Pio X, quando l’evoluzione della musica di chiesa, dal barocco del sei e settecento giunse ad un inammissibile dilagare dello stile teatrale nell’ottocento, operare una “riforma” a fondo con il suo famoso motu proprio “Inter sollicitudines”, elevandolo a “codice giuridico della musica sacra”. L’ambiente era preparato e maturo. Basta ripassare un po’ le lettere che Perosi scriveva da Ratisbona; e anche in Italia, ad opera dell’AISC, di congressi e di riviste (come non ricordare il P. Angelo De Santi, nostro primo preside, estensore egli stesso della bozza del motu proprio!), si stava attuando un recupero del repertorio gregoriano e polifonico e dello spirito stesso della musica sacra nelle composizioni di nuovo conio, per non parlare della rinascita dell’organo. Con il documento di S. Pio X gli sforzi in atto vengono catalizzati e potenziati, e i frutti furono veramente abbondanti. Non tutto fu buono e della stessa qualità, è ovvio! Ma noi viviamo ancora dell’eredità di quella “riforma”, e Perosi e Refice, e tanti altri, sono perennemente giovani.
"Guidati dalla mano di San Pio X – e cito ora la conferenza 'La musica liturgica prima e dopo il Concilio Vaticano II', del 2006, – giungiamo alla soglia del Concilio Vaticano II. I documenti di Pio XII e della Congregazione dei Riti si limitarono all’applicazione del “motu proprio”, restringendone se mai gli ampi orizzonti. Quanto è successo dopo il Concilio, l’abbiamo vissuto nella nostra carne, e spesso si è trattato di mistero di passione. Specialmente nell’amara costatazione che la prassi è andata su sentieri molto diversi da quelli effettivamente indicati dal Concilio.
"Ad un programma tutto sommato eccellente, che avrebbe dovuto chiamare a raccolta tutte le forze vive liturgico-musicali per studiare un efficace programma di azione, c’è stata una risposta a dir poco deludente. Roma, purtroppo, declinò le sue precise responsabilità nella missione di salvaguardare l’unità nella varietà. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, e forse potrebbero riassumersi in una sola parola: anarchia. Oserei dire che in nessuno degli ambiti toccati dal Concilio – e sono praticamente tutti – si sono prodotte maggiori deviazioni che in quello della musica sacra. No, Roma non avrebbe mai dovuto declinare la sua responsabilità normativa. Sono stati necessari quaranta anni di attesa per avere un documento pontificio importante in materia, come effettivamente lo è il chirografo di Giovanni Paolo II dal titolo 'Mosso dal vivo desiderio”, commemorativo del centenario del ‘motu proprio’ “Inter sollicitudines' di San Pio X. Ma poiché tale documento non prende alcun provvedimento concreto, si può dire, ahimè, che 'lascia il tempo che trova': essendo il tema troppo scottante, si è fatto presto a chiuderlo nel cassetto, ripetendosi così la storia di alcuni documenti pontifici che precedettero l’“Inter sollicitudines”; persino un’enciclica così importante in normativa musicale come l’Annus qui di Benedetto XIV rimase lettera morta. Eppure il documento è bellissimo, nel senso di una convalida, ma anche di una lettura moderna e interiorizzata, del ‘motu proprio’ del 1903, senza spostarne una virgola, ricuperando anzi certi concetti messi precedentemente a tacere, come il concetto di universalità richiesto a qualsiasi musica liturgica degna di questo nome, e che gli esperti del Vaticano II fecero presto a vincolarlo al canto gregoriano e al latino; sfuggì loro il senso genuino di universalità, e come conseguenza di tale omissione incominciò presto il 'divide et impera'.
"Invece, privi del solerte controllo di Roma, sono successe tante cose che dovrebbero essere oggetto di un sincero mea culpa, e con precedenza assoluta, dato che si tratta della cosa più importante che possa esistere: il culto della Chiesa. Qualche esempio? Non siamo stati capaci di valorizzare le cose giuste, buone e belle, anche di nuova produzione; le abbiamo bensì sostituite con un cumulo di banalità spaventose, altro che le cavatine d’opera del tempo di San Pio X. Abbiamo tappato la bocca a chi poteva dire qualcosa di interessante e abbiano invece sostenuto, su parametri di abominevoli leggi di mercato, chi era meglio se se ne stava zitto. Abbiamo imposto al popolo di dimenticare le cose buone che sapeva e l’abbiamo costretto all’avvelenamento puro e semplice. Abbiamo reso difficile la vita alle scholae cantorum, agli organisti, ai maestri, umiliandoli, pretendendo un volontariato a costo zero, dimentichi che anche loro hanno diritto alla giusta mercede. A cuor leggero li abbiamo allontanati, sostituendoli spesso e volentieri con la discoteca, contribuendo così a gonfiare le tasche di mercanti senza scrupoli a spese del povero popolo che avrebbe diritto a ben altra sostanza... Sono cose dure, lo so, ma, fatte le dovute e onorevoli eccezioni, purtroppo veritiere. Sì, la necessità di un organismo pontificio che venga a mettere un po’ d’ordine in questa giungla è da toccare con la mano...
"A Concilio chiuso, i guai, cresciuti a valanga fino ai giorni nostri, incominciarono presto. A Roma, alla fine degli anni sessanta, abbiamo assistito al fenomeno della cosiddetta 'messa beat', ad opera del compositore Marcello Giombini (che non era certo un analfabeta in musica) col patrocinio dello stesso cardinal Lercaro. Giombini ha fatto ancora in tempo a esprimere un pubblico mea culpa; ma penso che anche Lercaro, da grande uomo di Chiesa qual era, se fosse vissuto più a lungo, avrebbe posto un freno ai suoi entusiasmi (...) La 'messa beat' ebbe l’effetto di una deflagrazione nucleare, con la fatale conseguenza di vedere riconosciuto 'diritto di cittadinanza liturgica' a una prassi tanto pericolosa quanto azzardata: e cioè, che la musica liturgica poteva essere – o doveva essere? – una semplice trasposizione della musica profana di moda. Erroneamente e ingiustamente tale musica di consumo, inconsistente, insulsa ed effimera, viene detta 'popolare', come del resto altrettanto erroneamente vengono chiamati 'concerti' quegli schiamazzi, quei frastuoni 'sconcertanti' e quelle contorsioni che tanto deliziano oceaniche folle di sprovveduti. È proprio questo falso genere 'popolare', imposto dalla forza travolgente dei mezzi di comunicazione al servizio di mercanti senza scrupoli, che ha fatto inaridire le pure sorgenti del canto gregoriano e di quella musica popolare e colta, che costituivano il decoro più bello delle nostre chiese e delle nostre celebrazioni, fomentando nel contempo un astio, un odio addirittura, di indubbia matrice maligna, poiché si verifica all’interno della Chiesa e contro la Chiesa stessa".
Sicché con la lettura di questi paragrafi arriviamo praticamente all’oggi. Nel pontificato di Benedetto XVI, oltre a qualche bel discorso, come quello in occasione della benedizione del nuovo organo di Ratisbona, che viene a confermare il suo alto pensiero sull’importanza e il ruolo della musica sacra, anche sotto il profilo filosofico, oltre a qualche discreto ma significativo gesto legato diretta o indirettamente ai problemi che ci occupano, sul piano dottrinale per il momento non possiamo che citare la nota “conclusione” del sinodo dei vescovi, che il Papa raccoglie nella sua esortazione postsinodale “Sacramentum caritatis”, con qualche sottolineatura in più. La suddetta “conclusione” esorta, quasi dovendo chiedere il permesso, a vagliare la possibilità di un uso del latino e del canto gregoriano negli incontri “internazionali”. Cosa giusta e saggia; ma io mi chiedo: se non vengono praticati negli incontri “nazionali” o locali, come saremo pronti a farlo negli incontri “internazionali”? Si esorta parimenti a che i giovani sacerdoti, sin dal seminario, si abituino a “capire” la messa in latino..., solo “capirla”, perché, di studiare un po’ sul serio il latino, e anche la musica e il canto gregoriano, non se ne parla, purtroppo. Anche per quel che riguarda il coinvolgimento del popolo, il discorso è timido assai.
Attualmente, tanti giovani sacerdoti sentono il fascino della grande tradizione della Chiesa cattolica, ma sono inermi e impreparati... Sono un po’ come la “strada” del Vangelo, su cui cade il seme, ma gli uccellini lo portano via. Manca proprio l’“humus”, e non è colpa loro... Quanti fermenti che si manifestano non solo in parte del clero giovane ma anche in numerosi laici, non solo in Italia ma, e forse ancora di più, in tanti altri paesi, magari extraeuropei, ho potuto constatare e toccare con la mano nel mio girovagare per il mondo! E, di riflesso, anche nel PIMS, che conta con una variopinta compagine di allievi, veramente internazionale, anzi intercontinentale, dall’America al lontano Oriente e all’Africa. Tutto ciò mi ha fatto accarezzare il sogno che ci sia effettivamente una “aurora” da svegliare, per dirla con il salmo 56,9: “exsurge, gloria mea, exsurge, psalterium et cithara: excitabo auroram!” Lo dicevo nel congresso nazionale messicano di musica sacra, svoltosi nella città di Torreón nel 2006:
"Ho in preparazione un volume contenente varie conferenze e scritti su questi argomenti, avrà come titolo la frase del salmo 'Excitabo auroram'. Io sento l’approssimarsi di questa aurora, sento che le istanze che ne vogliono affrettare il chiarore serpeggiano nella base, in un desiderio che si diffonde e si rinsalda in settori sempre più ampi del popolo di Dio. Non sarà facile, come non fu facile allora (nei tempi di San Pio X); sarà anzi più difficile, ma occorre almeno sapere qual è l’indirizzo giusto, quale è la meta verso la quale orientare i nostri passi".
Perché sarà più difficile? Dicevo già nel 2002, nella conferenza citata:
"Occorre far notare una differenza di non secondaria importanza: le riforme del passato dovevano fare i conti con musiche forse 'eccessive', ma formalmente corrette. Molta musica che si scrive oggi, o si mette in circolazione, ignora invece, non dico la grammatica, ma perfino l’abecedario dell’arte musicale".
Poi, i moderni mezzi di diffusione, sulla base di una generale ignoranza, specie in certi settori del clero, cui si abbina una prepotente arroganza, fanno da altoparlante a suon di grancassa a certi prodotti che, mancando di quelle caratteristiche indispensabili alla musica sacra (santità, arte vera, universalità) non potranno mai procurare un “vero bene” alla Chiesa, ma, dopo aver dilagato “per longum et latum”, lasceranno dietro di se solo un deserto...
Ecco perché si impone oggi una energica “riforma” nel senso di una radicale “conversione” verso la norma della Chiesa; e tale “norma” ha come punto cardinale il canto gregoriano, sia in se stesso che come principio ispiratore di ogni buona musica liturgica. “Nova et vetera”: il tesoro della tradizione e le cose nuove, radicate però nella tradizione. Ipso facto, le cose fiacche, o non buone, dovrebbero cadere da se. Vinciamo il male con il bene.
Dicevo il 5 dicembre 2005 presso la Sala del Sinodo in Vaticano per la Giornata dedicata alla Musica Sacra dalla Congregazione per il Culto:
"Il canto gregoriano non deve rimanere nell’ambito dell’accademia, o del concerto, o delle incisioni discografiche, non si deve mummificare come un reperto da museo, ma deve tornare ad essere canto vivo, anche dell’assemblea, che troverà in esso l’appagamento delle più profonde tensioni spirituali, e si sentirà veramente popolo di Dio. È ora di rompere gli indugi, e dalle chiese cattedrali, dalle chiese maggiori, dai monasteri e dai conventi, dai seminari e case di formazione religiosa deve venire l’esempio illuminante, e così anche le parrocchie finiranno per essere contagiate dalla bellezza suprema del canto della Chiesa.
E il canto gregoriano riecheggerà suadente, e amalgamerà il popolo nel vero senso della cattolicità. E lo spirito del canto gregoriano informerà le composizioni di nuovo conio, e guiderà col vero 'sensus Ecclesiae' gli sforzi di una retta inculturazione. Anzi, direi che le melodie delle varie tradizioni locali, anche di paesi lontani e di cultura ben diversa dalla nostra, sono parenti prossime del canto gregoriano, e anche in questo senso il canto gregoriano è veramente universale, a tutti proponibile, e capace da fare da ‘trait-d’union’, da amalgama, nel rispetto dell’unità e della pluralità. D’altronde sono proprio questi paesi lontani, queste culture che si sono affacciate di recente sull’orizzonte della Chiesa cattolica ad insegnarci l’amore per il canto tradizionale della Chiesa. Queste chiese giovani, unitamente all’aiuto ministeriale che stanno già dando alle nostre stanche chiese europee, daranno a noi l’orgoglio di riconoscere, anche nel canto, da quale pietra siamo stati tagliati, e ben venga".
Questo è l’indirizzo che il PIMS, nella sua storia quasi centenaria (siamo nel 96o di fondazione) ha cercato sempre di seguire, e ora più che mai, come cercano di fare le vostre scuole diocesane “in armonica sintonia” con la scuola pontificia di Roma. Uso questa espressione “in armonica sintonia” per dirla con Papa Benedetto XVI, il quale, come è noto, ha visitato il PIMS pochi giorni fa, cioè il 13 ottobre scorso. Cito l’ultima parte dell’illuminato discorso che il Papa ha rivolto a professori ed alunni dell’Istituto:
"L’autorità ecclesiastica deve impegnarsi a orientare sapientemente lo sviluppo di un così esigente genere di musica, non congelandone il tesoro, ma cercando di inserire nell’eredità del passato le novità valevoli del presente, per giungere a una sintesi degna dell’alta missione a essa riservata nel servizio divino. Sono certo che il PIMS, in armonica sintonia con la Congregazione per il Culto Divino, non mancherà di offrire il suo contributo per un “aggiornamento” adatto ai nostri tempi delle preziose tradizioni di cui è ricca la musica sacra".
Un noto giornalista – ma è frutto della sua fantasia! – ha scritto in seguito: “A questo auspicio potrebbe seguire presto l’istituzione nella curia romana di un ufficio dotato di autorità in materia di musica sacra”. Io ho ritenuto sempre auspicabile un tale organismo, e questo desiderio si trova “passim” nelle mie conferenze e scritti. Non che esso solo possa bastare a risolvere radicalmente il problema; ma mi pare altrettanto vero che, finché non si disponga di tale strumento, l’azione dei pochi, siano pur diocesi o interi territori, viene isolata, come se di “privata iniziativa” si trattasse. Altrimenti, chi dirà, con una forza che superi l’auspicio, che nelle chiese cattedrali, basiliche, monasteri, case di formazione e seminari, occorre che ci sia almeno una santa messa domenicale in latino e degnamente cantata? Chi dirà che occorre che vi sia un repertorio minimo di canto gregoriano d’obbligo per “tutti”? Chi si prenderà cura di “orientare sapientemente” i repertori e le scelte delle chiese locali? Che a nessuno venga in mente che tali cose sono vincolate a un eventuale e occasionale ripristino del rito di San Pio V, a norma del motu proprio “Summorum Pontificum” di Benedetto XVI! Torniamo semplicemente al Vaticano II per constatare che la volontà dei padri conciliari esigeva per il nuovo rito di Paolo VI che non si dovesse mai deflettere da questa via.
Conclusione: il silenzio da parte di Roma che è durato cinquant’anni, si è finalmente tramutato in parole chiare, sia da parte di Giovanni Paolo II che di Benedetto XVI. Ora, tutto sommato, dovrebbe essere più facile e giustificato, negli orizzonti della musica sacra, osar sperare nel risvegliarsi e nell’incedere di una nuova aurora... “Sic nos Deus adiuvet!”.
Fonte: Valentino Miserachs Grau in chiesa.espresso.repubblica.it
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