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E il giovane prete che costruiva meridiane divenne Papa (e pure Santo)

 

 

Costruttore di meridiane

È una delle mode più recenti in fatto di slow tourism: oasi più o meno agresti in cui spegnere telefoni e telefonini, disinnescare satelliti e antenne, disconnettere computer e ausili elettronici per disintossicarsi da ogni dipendenza e riattivare recettori perduti o obsoleti di orientamento e connessione a misura d'uomo e di natura.


Per possibile o auspicabile che sia, tale iniziativa rischia un difetto di contesto: il turista che si astrae volontariamente dal flusso globale di comunicazioni mediate sa che vi è inserito a largo raggio; per quanto serio e prolungato, il suo tende a essere un divertissement piuttosto che una necessità: manifesta, semmai, una necessità opposta. Così non è o non era per i tempi e le culture indagate da uno dei massimi esperti di “navigazione naturale”, Tristan Gooley, nel manuale storicamente documentato L'antica arte di trovare la strada (traduzione di Carla Bertani, Milano, Vallardi, 2012, 269 pagine, euro 15,90).


Così non era neppure ai tempi relativamente recenti, ma apparentemente remoti dall'homo technologicus, quando il futuro Papa Pio X maturava la vocazione sacerdotale e muoveva i primi passi di giovane prete nelle campagne venete, anche se non fu d'ordine esclusivamente pratico la sua passione per le meridiane, di cui lasciò proprio fra quelle terre i principali segni. Elsa Stocco, docente e gnomonista di Castelfranco Veneto, autrice di una serie di ricerche nelle quali ha coinvolto le scolaresche -- i risultati sono esposti con chiarezza in rete -- ci informa personalmente dei numerosi viaggi e degli studi che sta ancora compiendo lungo gli itinerari segnati da memorie tuttora fresche e dai non pochi biografi, a iniziare da quelli della prima ora come Angelo Marchesan, canonico della cattedrale di Treviso come lo era stato Pio X, che ebbe modo di vedere il libro (Pio X nella sua vita, nella sua parola e nelle sue opere, Roma, Desclée & C., 1910).


Nato a Riese nel 1835 da una famiglia non ricca ma solida nella sua consuetudine con il lavoro e i principi cristiani, distintosi in particolar modo durante gli studi «per moltissima destrezza nella soluzione de' problemi sì algebrici che geometrici» e «per chiarezza d'idee e per molte precise cognizioni anche delle prove matematiche», don Giuseppe Sarto, consacrato sacerdote a 23 anni nel duomo di Castelfranco, viene subito assegnato come cappellano a Tombolo in aiuto del parroco don Antonio Costantini.


Ed è lì che, pur nell'intenso lavoro pastorale e manuale per cui viene soprannominato “moto perpetuo” -- e anzi proprio in ottica di servizio -- riesce a dedicarsi alla sua assai meno nota attività di costruttore di meridiane. «Ne fece una su di una parete della canonica di Tombolo», dove peraltro non era lui ad abitare, e ne disseminò i paesi vicini, dove, racconta Marchesan, si spargeva rapidamente la sua fama di ispirato predicatore. Sua la meridiana della chiesa di Fontaniva, sotto la quale il 19 marzo 1904 fu inaugurata un'iscrizione per ricordarne la costruzione da parte di colui che nel frattempo era divenuto Pio X.


Ma con particolare passione il giovane cappellano lavorò a un orologio solare «sulla facciata della canonica di Galliera: fattura, quest'ultima, che durò alquanto più a lungo delle altre, a motivo di certe pesche secche degli amici di Galliera, le quali l'augusto autore confondeva talora col sesto e col pennello». Secondo Marchesan e altre fonti, non furono queste le uniche meridiane realizzate da don Giuseppe Sarto; Elsa Stocco le sta ancora cercando e di alcune ha curato il restauro: nella stessa Fontaniva, ad esempio, e a Onara, dove l'orologio solare, realizzato anche lì sulla canonica, recava la scritta, ben leggibile benché tracciata con grafia incerta: «Don Giuseppe Melchior Sarto fece».


Meridiana canonica di TomboloMeridiana canonica di TomboloA Tombolo, invece, la canonica di allora non esiste più. Peccato, osserva Stocco, perché doveva essere una delle sue meridiane più interessanti: «dalle fotografie si può vedere che erano presenti due quadri. Nel più grande era disegnato l'orologio solare che segna un ampio numero di ore, mentre in quello più piccolo e allungato era probabilmente tracciata la meridiana vera e propria, che segna soltanto l'ora del mezzogiorno vero, del meridies, l'istante in cui il Sole transita sul meridiano locale, nel momento della sua culminazione. È presumibile pensare che oltre alla linea del mezzogiorno vero del sole locale fosse tracciata anche la curva del mezzogiorno medio», come spesso si usava nell'Ottocento.


Nelle tappe ulteriori della carriera ecclesiastica di Sarto non sono emerse, sinora, ulteriori tracce di meridiane. L'ipotesi più ovvia è che, dall'incarico di parroco a Salzano a quelli nel seminario e nella curia di Treviso, per non parlare dell'episcopato mantovano e del patriarcato veneziano, occupazioni e responsabilità abbiano lasciato a malapena spazio per le quattro ore di sonno che fin dalla giovinezza dichiarava essergli sufficienti.


All'indomani del suo ingresso a Venezia, scriveva con grafia veloce a don Giovanni Battista Rosa (suo vicerettore al seminario di Mantova e in seguito vescovo di Perugia dal 1922 al 1942) che un collaboratore gli stava «aprendo le lettere che dimandano soccorsi, e avendo ancora un bel monte da numerare a quest'ora è arrivato alla bella cifra consolantissima di 1.250 istanze».
Si sa che un orologio, unico oggetto prezioso di sua proprietà insieme a una posata d'argento, negli anni giovanili andò e tornò più volte dal monte dei pegni per far fronte alle sollecitudini caritative di don Giuseppe.
Riferimenti al tempo che scorre e alla necessità d'impiegarlo bene (ma non senza abbandono fiducioso alla Provvidenza) sono disseminati in tutto l'epistolario sartiano, sia rivolti a se stesso sia a coloro ai quali teneva in modo rigoroso: i futuri preti (Lettere di san Pio X raccolte da Nello Vian, Roma, Angelo Belardetti, 1954).


Non è difficile pensare come, una volta Pontefice, l'antica sua passione per l'osservazione astronomica applicata si armonizzasse alla linea del predecessore Leone XIII, che aveva tra l'altro rifondato la Specola Vaticana. Fu Pio X a volervi nel 1904 Pietro Maffi (arcivescovo di Pisa e poi cardinale, già creatore di un osservatorio nel seminario di Pavia) e su suo consiglio, nel 1906, nominò a dirigerla il gesuita austriaco Johann Georg Hagen, astronomo noto e stimato a livello internazionale, che virò decisamente l'indirizzo dell'osservatorio da meteorologico ad astronomico, chiedendo e ottenendo dal Pontefice -- sono gli studi del gesuita Sabino Maffeo -- «un secondo grande telescopio per l'osservazione diretta degli astri».


Il nostro giornale si è già occupato (29 maggio 2010) di come, proprio in quel pontificato, l'osservatorio vaticano, partecipando al progetto mondiale della «Carta fotografica del cielo», abbia immortalato nel 1910 il passaggio della cometa di Halley. Nell'agosto 1908 Maffi scriveva al Papa congratulandosi per le nomine di padre Hagen a membro della Kaiserliche Leopoldnische Carolinische Akademie der Naturforscher e membro associato della Royal Astronomical Society di Londra: «un vero omaggio alla Specola, che rivive».


Non per nulla nel 1908, in prossimità del suo giubileo sacerdotale, dalla bergamasca si auguravano che «il Santo Padre con un meraviglioso telescopio potesse dal Vaticano vedere le nostre colline illuminate con maiuscoli w Pio X» (Alejandro M. Dieguez - Sergio Pagano, Le carte del “Sacro Tavolo”, Aspetti del pontificato di Pio X dai documenti del suo archivio privato, 2 volumi, Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, 2006).


Si dice che un giorno il parroco di Fontaniva, in udienza da Pio X, si lamentasse che la sua meridiana non stava funzionando molto bene. Pare che il Papa abbia risposto con una delle sue battute: «Non ero mica infallibile allora!». In realtà, precisa Elsa Stocco, «gli orologi solari sui quali è ancora possibile effettuare un controllo ci dicono che essi sono correttamente tracciati» e la perplessità del povero prete si deve probabilmente a un confronto con l'orologio da polso senza tener conto della differenza «fra tempo solare vero e tempo medio del fuso».


Molti gnomonisti oggi reclamano che san Pio X sia dichiarato patrono della categoria. Il fatto che lo gnomone, strumento antichissimo connesso alle esplorazioni e alla geodesia, si identifichi con la radice linguistica indeuropea della conoscenza è tutt'altro che in contrasto con la sapientia popolare di cui si colora la nutrita aneddotica intorno a Pio X.


La sintesi, sin dall'introduzione di Angelo Roncalli (allora cardinale patriarca di Venezia), è nel libro Il santo Pontefice romano Pio X, uscito in cinque lingue in occasione della canonizzazione celebrata da Pio XII nel 1954, con le foto di Leonard von Matt e i testi di Nello Vian. Guida attualissima di viaggio tra i luoghi, l'umanità e -- perché no -- le meridiane di Papa Sarto, il libro, asciugata ogni retorica, rimanda a un quasi inevitabile punto di partenza: la foto dignitosa della madre, i suoi ferri da stiro consunti e il brassoler, il “braccio”, ovvero la misura di legno con incisioni graduate da lei usata per il lavoro di sarta.


Un gesto che il figlio (fiero del proprio cognome, su cui amava scherzare) dovette vederle compiere abitualmente; forse gli capitava di rievocarlo mentre, con tecnica presumibilmente perfezionata al Seminario di Padova, tracciava i segni per il sole sui muri di quelle case parrocchiali la cui cura avrebbe raccomandato anche da Papa. Quando il cardinale Rafael Merry del Val (San Pio X, un santo che ho conosciuto da vicino, traduzione di Francesca Nestor, Verona, Fede & Cultura, 2012, pp. 72, euro 10) ricorda la premura del Papa per le condizioni del lavoro femminile, menzionando tra l'altro le merlettaie di Burano visitate da patriarca nel 1898, sottolinea con sorpresa la conoscenza da intenditore manifestata da Pio X in tema di merletti e punti. Forse, dall'antica canonica di Tombolo dove l'arciprete cuciva da sé i paramenti e il giovane don Sarto si studiava di renderglisi utile, sono ancora molte le tracce di “fede applicata” che attendono d'essere ricomposte.


Non sembra irrilevante neppure l'episodio narrato da Remo Bistoni, oggi decano del collegio canonicale perugino e biografo di quel Giovanni Battista Rosa che, molto prima di diventare vescovo, era stato costantemente vicino a Papa Sarto, scambiando con lui un fitto carteggio. Interrogato su eventuali ricordi che in via indiretta potessero riannodarsi alla passione giovanile di Pio X, Bistoni ha rievocato un episodio che, a suo dire, poco aveva a che fare con le meridiane. Un giorno, a Mantova, il giovane don Rosa, vedendo il vescovo Sarto raccogliersi in preghiera presso sepolture ebraiche, non riuscì a celare qualche perplessità. «Bravo!» lo rimbrottò il vescovo. «Meno male che la teologia di Dio non è come la tua».

 

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Fonte: Isabella Farinelli - L'Osservatore Romano 20-21 agosto 2012

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