Se chiedeste ad un conoscente, anche cristiano, come auspicherebbe di morire, nella stragrande maggioranza dei casi, dopo gli scongiuri di rito, vi risponderebbe che preferirebbe una morte improvvisa; basta non soffrire. Il che è umanamente del tutto comprensibile.
Se poi andiamo a rivedere nei libri di devozione alcune preghiere, come ad esempio le Litanie dei Santi che risalgono ai primi secoli dopo Cristo, troviamo che la morte improvvisa è considerata una vera sventura; infatti in una di queste si recita espressamente: “A subitanea et improvisa morte, libera nos Domine”.
Che la morte improvvisa sia un evento cattolicamente indesiderabile viene indicato e supportato da una delle 15 promesse che la Santa Vergine del Rosario fa a tutti coloro che la invocano: chi lo reciterà devotamente meditando i Misteri…“non perirà di morte improvvisa”.
Evidentemente c’è qualche cosa che non va: esiste una contrapposizione di valori tra la Santa Vergine e il mondo: il diverso porsi nei confronti della sofferenza! Una sorta di ostracismo culturale rende non conveniente argomentare su sofferenza e morte. Nella nostra società decristianizzata ed edonista ne è andato perso il significato escatologico. Sono diventate il male assoluto, da evitare, fuggire e addirittura cercare di nascondere.
Sofferenza e morte hanno preso il posto del vero male assoluto: la perdita della vita eterna. Persino nella liturgia i termini “Sacrificio della Santa Messa” intesa come il reale rinnovamento dell’olocausto incruento di nostro Signore Gesù Cristo a Dio, è stato sostituito con i termini meno inquietanti di “Celebrazione Eucaristica” o più conviviali come “la Mensa del Signore”.
L’uomo che soffre è senza dubbio il fine ultimo, l’oggetto delle attenzioni, il fulcro centrale attorno cui dovrebbero concentrarsi tutte le attività assistenziali. Il porsi delle domande sulla sofferenza e sul soffrire quindi è una impegnativa ma necessaria operazione da compiere se si desidera non perdere di vista il significato e la qualità del nostro agire quotidiano. […]
La sofferenza è parte dell’uomo, è incisa nella sua natura; l’uomo nasce nella sofferenza del parto, cresce nella sofferenza che può assumere forme diverse e solitamente muore nella sofferenza. È il “vulnus” della natura umana che la rivelazione dell’Antico Testamento identifica come conseguenza del peccato originale (Genesi). È fedele compagna dell’uomo di tutti i tempi ed è l’ineluttabile suo incontro col male.
L’idea che la sofferenza umana dipendesse dal peccato originale aveva indotto nella cultura ebraica pre-cristiana ad associare la malattia alla punizione per un peccato commesso. Era cioè un atto di giustizia divina e ciò doveva essere sufficiente per giustificarla ed accettarla. Il malato era così macchiato della infamia di peccatore, aggiungendo sofferenza sociale a quella propria della malattia. Questa interpretazione cerca di dare una prima risposta alla domanda fondamentale che ancora oggi angoscia l’uomo: che senso ha la sofferenza?
Risposte differenti preludono a concezioni differenti dell’esistenza come pure a maniere differenti di vivere, di soffrire e di morire.
Nell’Antico Testamento il libro per eccellenza che tratta l’argomento è il libro di Giobbe. Qui viene proposto un nuovo significato, cioè quello della prova cui Dio sottopone l’uomo per saggiarne la fedeltà. L’aspetto della sofferenza qui evidenziato non è quello di un atto di giustizia divina a monito ed espiazione di una colpa, ma il senso di una prova che, se superata, porterà a grandi grazie. Il sofferente, consapevole di questo, la considera una tappa necessaria da percorrere per poter ottenere la benevolenza divina, che rappresenta il miglior bene della vita. Questa è la motivazione che aiuta a sopportare il male.
La storia è nota ma vale la pena di ricordarla. Giobbe era “uomo semplice e retto, timorato di Dio ed alieno al male”, molto ricco e potente. Per poter dimostrare la sua fedeltà, Dio concede a satana di sottoporre Giobbe ad ogni tipo di sofferenza. Egli viene privato di ogni ricchezza, dei suoi figli, ed infine viene colpito da una orrenda malattia che lo ricopre di piaghe e lo rende ripugnante. Per tutte queste disgrazie viene accusato dai suoi amici di aver commesso dei peccati contro Dio.
Ma egli sa di essere un uomo giusto e si oppone con tenacia alla loro accusa e, pur non capendo la motivazione delle sue disgrazie, accetta tutto non rinnegando mai Dio. In Lui, pur nella incomprensione, pone la sua fede meravigliosamente espressa con le parole –“Io so infatti che il mio redentore vive, e nell’ultimo giorno io risorgerò dalla terra e che nuovamente mi circonderò della mia pelle e nella mia carne vedrò il mio Dio”.
Alla fine Dio steso parla, riconosce la rettitudine di Giobbe, rimprovera i suoi amici e gli restituisce il doppio di quello che aveva posseduto.
Nel libro di Giobbe quindi la sofferenza è inflitta anche ad un innocente come prova, volta a consolidare il bene o a superare il male insito nell’uomo. L’immagine di Giobbe sotto certi aspetti anticipa il completamento della rivelazione sul significato finale della sofferenza: la sofferenza di Cristo, il figlio di Dio. Egli è l’Innocente per eccellenza che si offre spontaneamente all’estrema sofferenza sino alla morte, per espiare i peccati del mondo e rendere possibile la salvezza dell’umanità. Ad essa viene aperta la strada della sconfitta dell’estremo male, cioè della morte, con la gloriosa resurrezione della carne, la vita eterna e la vista diretta di Dio come preconizzato già da Giobbe. Con Cristo la sofferenza assume soprattutto significato salvifico. […]
La religione cristiana non nega alla sofferenza la possibilità di una valenza positiva. È quindi impossibile separare la sofferenza dal cristianesimo se non al prezzo di cambiarne l’essenza. La sofferenza, con l’immolazione di Cristo sulla Croce, è ontologicamente legata al cristianesimo. Se ci si rifiuta di parlarne si rifiuta di parlare del senso ultimo del cristianesimo e della sua vittoria sul male tramite l’amore che è donazione totale. Il soffrire in sé, sebbene possa essere un importante strumento di perfezionamento, ha cristianamente scarso valore se non lo si riesce ad unire, tramite la fede e l’amore, alle sofferenze ed alla espiazione di Gesù Cristo. È proprio Nostro Signore che ci ammonisce in tal senso: “Se qualcuno vuol venire dietro me, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16, 24-25).
San Paolo coglie perfettamente questo invito di Gesù dicendo: “Ora mi rallegro nelle sofferenze che patisco per voi e completo nella mia carne quel che manca alle sofferenze di Cristo, a pro del corpo suo che è la Chiesa…” (Col 1,24).
Certo la sofferenza è un male che umanamente non può essere auspicato e rende il sofferente debole anche con ripercussioni sullo spirito. La passione di Nostro Signore nei Getsemani ci è rimasta ad esempio: “L’anima mia è triste fino alla morte; rimanete qui e vegliate con me”, “Padre mio, se è possibile passi da me questo calice! Tuttavia non come voglio io ma come vuoi tu”. […]
Ma per accogliere la sofferenza in tali termini occorre avere una vera fede profonda; non è sufficiente il semplice sentimento religioso. Occorre essere uniti a Dio costantemente nella preghiera. Un popolo di fedeli diseducati al concetto salvifico della sofferenza e del sacrificio si troverà senza armi nel momento del maggior bisogno.
Il grandissimo magistero di S.S. Pio XII in un discorso ad un pellegrinaggio di malati americani il 25 ottobre 1953, poi ripreso nella Salvifici Doloris di Giovanni Paolo II, così si esprime: “Noi possiamo dire con San Paolo – la grazia che è stata concessa a voi è quella di soffrire per amore di Cristo, non solamente di credere in Lui -. Fate tesoro di questa sofferenza che vi è data dalla volontà di Dio; sopportatela sempre in unione con Nostro Signore sofferente, unendola a Lui per aumentare e santificare i membri del suo corpo…”.
(E per quanto riguarda espressamente i casi di sofferenza fisica – n.d.r) Sempre S.S. Pio XII nel suo discorso ai partecipanti al simposio sulle malattie coronariche l’8 maggio 1956: “…la medicina che vuol essere veramente umana, deve rivolgersi alla persona tutta intera, corpo e anima. Ma d’altronde essa ne è incapace da sola, non detenendo alcuna autorità né alcun mandato che la rendano abile ad intervenire nel dominio della coscienza. Essa esige dunque collaborazioni che estenderanno la sua opera e la potranno condurre al suo vero scopo. Posto nelle condizioni ideali, sia dal punto di vista materiale che morale, il malato più facilmente riconoscerà in coloro che lavorano per risanarlo, degli aiutanti di Dio, preoccupati di preparare la via all’intervento della grazia, ed è l’anima stessa che sarà ristabilita nella piena e luminosa comprensione delle sue prerogative e della sua soprannaturale vocazione. Solamente a queste condizioni si potrà parlare in tutta verità di un efficace sollievo della sofferenza”. […].
Fonte: Roberto Galbiati in filia ecclesiae
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